"Speak softly and carry a big stick" (T. Roosevelt)
di Mario Seminerio – Il Secolo d’Italia
La turbolenza delle ultime settimane sui mercati finanziari, con il forte aumento dei rendimenti sui titoli pubblici e del premio richiesto per assicurarsi in caso di default sovrano della Grecia, ha innescato un prevedibile effetto di contagio su scala europea. La Commissione europea ha approvato il piano di consolidamento fiscale del governo ellenico, ma la cosa non ha tranquillizzato i mercati, che continuano a ritenere la Grecia incapace di raggiungere l’obiettivo. Da Atene, la tensione si è estesa anche al Portogallo, dove il governo di minoranza del socialista José Socrates potrebbe essere costretto a dimettersi per l’impossibilità a far passare la stretta fiscale necessaria alla riduzione del deficit. Anche la Spagna e l’Irlanda sono tornate sotto i riflettori, per analoghe considerazioni.
Questi paesi sono arrivati alla crisi con forti squilibri macroeconomici, rappresentati da una costante perdita di competitività. Nonostante i vantaggi della partecipazione all’area euro (i tassi d’interesse molto bassi rispetto al passato), i governi non hanno saputo o voluto ristrutturare seriamente l’economia, adagiandosi sui dati di una crescita economica “drogata” dall’indebitamento estero, mentre la produttività è rimasta stagnante ed i costi del lavoro sono aumentati. Non disponendo della leva del cambio – quella svalutazione monetaria che noi italiani tanto bene conosciamo – oggi Grecia, Portogallo, Irlanda e Spagna hanno davanti a sé una dolorosa prospettiva: passare attraverso una deflazione, fatta di tagli a stipendi e pensioni ed elevata disoccupazione. E se l’Irlanda pare aver accettato i sacrifici dell’aggiustamento ed il governo spagnolo di Zapatero sta tentando di adottare misure di riequilibrio, soprattutto attraverso il contenimento della spesa previdenziale, la Grecia ed il Portogallo sembrano bloccate dalle proprie debolezze sociali e politiche.
La cifra principale della crisi dei quattro paesi è l’ampiezza del deficit pubblico, che sta velocemente accrescendo il loro stock di debito. Ma il problema chiave è la componente estera del debito, che per tutti questi paesi è elevatissima. Che accadrebbe se i creditori decidessero di liberarsi di questi titoli, e di non sottoscriverne di nuovi? Semplicemente, l’insolvenza. Fino ad oggi Grecia, Spagna, Irlanda e Portogallo hanno potuto sfruttare la finestra d’indebitamento della Banca Centrale Europea, che fino alla fine del 2010 accetta a garanzia titoli con un rating particolarmente basso. Ma i mercati guardano avanti e scommettono sull’incapacità della Ue a gestire la crisi, rafforzati in questo convincimento dall’apparente linea dura del governo tedesco, che a parole si è detto finora contrario a salvataggi, anche a quelli basati su pesanti condizioni in capo ai debitori. Se non ci dovesse essere una proroga delle “condizioni di favore” della Ue cosa farebbe – ad esempio – la Grecia, che potrebbe subire un ulteriore deterioramento del giudizio delle agenzie di rating e con esso la possibilità di utilizzare propri titoli per ottenere finanziamenti? Anche la notizia della disponibilità europea a sostenere finanziariamente la Grecia, a fronte di condizioni stringenti al risanamento da parte del governo di Atene, non cambia i termini politici della questione. Il governo tedesco si è mosso anche per compiere un salvataggio indiretto delle proprie banche, che hanno pesantemente investito sul debito di Atene e che finora non si sono dimostrate, con la piena connivenza del governo di Berlino, modelli di trasparenza contabile.
E l’Italia? Ci sono poche luci e molte ombre. Lo squilibrio dei conti con l’estero è complessivamente assai minore rispetto ai paesi oggi bersagliati dai mercati finanziari, abbiamo meno debito estero ed un tasso di risparmio robusto. Ma l’ombra più cupa è rappresentata dalla nostra incapacità a crescere. Quando si ha un rapporto debito-Pil del 120 per cento e non si riesce a produrre crescita (anzi, il Pil italiano cresce meno del costo del debito ed i costi unitari del lavoro appaiono sinistramente simili a quelli dei paesi oggi nell’occhio del ciclone), i creditori si innervosiscono ed i mercati fiutano il sangue. Se questo è il quadro, l’ottimismo del governo rischia di apparire manieristico. Il rifiuto della realtà, per quanto dura, rischia di fare precipitare anche la nostra situazione. L’Italia non riesce a frenare l’espansione della spesa pubblica in relazione al Pil, che viene rincorsa da un continuo, strisciante aumento della pressione fiscale. E una sempre maggiore pressione fiscale, come mostra una schiacciante evidenza empirica ormai secolare, frena la crescita e genera una spirale potenzialmente mortale.
La pressione fiscale italiana è rimasta stabile durante la crisi, mentre il paese ha perso circa 6 punti percentuali di Pil. Se da un lato ciò ha rassicurato i mercati sulla nostra solvibilità di breve termine, dall’altro ha finito con lo stringere il cappio al collo della nostra crescita potenziale, già rachitica prima della crisi, e rischia seriamente di farci avvitare su noi stessi. I prossimi mesi saranno decisivi per la costruzione europea, ma ancor più potrebbero esserlo per il nostro paese.